“Fa’ che il tuo cibo sia la tua medicina e che la tua medicina sia il tuo cibo” diceva Ippocrate più di 2.400 anni fa. Sicuramente un antesignano, visto che le ricerche in campo genomico hanno fornito evidenze a supporto del pensiero del medico vissuto nell’antica Grecia: le caratteristiche genetiche di ognuno di noi possono influenzare la risposta ai nutrienti, ossia a quello che mangiamo, modificandone l’assimilazione, la metabolizzazione, l’accumulo e la loro espulsione; allo stesso tempo, i nutrienti possono influenzare l’espressione genica e, quindi, anche la formazione e la funzione delle proteine del nostro organismo nonché i diversi processi metabolici.
Ma come possono gli avanzamenti della scienza aiutarci ad esercitare proficuamente un controllo sulla qualità e le nostre aspettative di vita, magari individuando una giusta alimentazione in armonia con il nostro codice genetico? Insomma come possiamo arrivare ad una dieta mirata che, tenendo conto anche di parametri cruciali come età, genere e stile di vita, diventi un valido strumento di prevenzione per molte patologie?
A darci un assist è la nutrigenetica, scienza di ultima generazione che punta i riflettori proprio sul modo in cui le caratteristiche genetiche di ogni singolo individuo influenzano la risposta ai nutrienti introdotti con l’alimentazione, per poi arrivare alla definizione di una dieta personalizzata.
“La nutrigenetica è basata su vasti studi scientifici – ha spiegato Laura Cardarelli, specialista in genetica medica del Gruppo Lifebrain, leader in Italia nel campo della Medicina di Laboratorio con 12 aree di specializzazione e oltre 240 Centri in 15 regioni – e il suo obiettivo è appunto quello riconoscere attraverso indagini ad hoc, specifiche caratteristiche genetiche individuali, che determinano una diversa risposta alla dieta e che possono favorire lo sviluppo di intolleranze, oltre che comportare un aumento del rischio di patologie in soggetti predisposti, in relazione a diverse abitudini alimentari. Ad esempio – prosegue – alcune varianti genetiche hanno un nesso con la sensibilità al glutine e la celiachia, altre con l’intolleranza al lattosio, altre ancora possono determinare un aumento del rischio di ipertensione e/o patologie cardiovascolari. L’analisi delle specifiche varianti genetiche può essere un utile strumento per le persone che presentano caratteristiche cliniche che facciano sospettare una patologia/intolleranza correlata all’assunzione di determinati alimenti o necessitano di evidenziare una predisposizione a tali condizioni”
Ma vediamo come e perché questa nuova branca di ricerca genica può aiutare a mantenerci in buona salute o a prevenire l’insorgenza di patologie partendo proprio dal genotipo individuale.
I polimorfismi. Il DNA è formato da 4 “lettere” A, C, G, T, le 4 unità molecolari chiamate “nucleotidi”, che si combinano in modo diverso formando un codice genetico unico per ciascun individuo. Analisi dettagliate del genoma hanno evidenziato la presenza di varianti genetiche SNPs – polimorfismi di singoli nucleotidi, ovvero variazioni molto frequenti nella popolazione, di una singola “lettera” del Dna. La presenza di specifiche varianti può suggerire la predisposizione genetica a manifestare alcune alterazioni patologiche.
“Anche se il 99% del nostro corredo genetico è completamente identico, ci possono essere approssimativamente 10 milioni di variazioni tra gli individui – ha chiarito l’esperta – si tratta dei polimorfismi genetici, varianti comuni che si presentano con una frequenza maggiore dell’1% nella popolazione e che si presentano come una modificazione della sequenza del Dna, e che determinano le nostre caratteristiche individuali”.
Un esempio noto di rapporto polimorfismo-dieta è quello del gene MTHFR coinvolto nel metabolismo dei folati e che codifica per l’enzima metilene-tetraidroflolato reduttasi: “La presenza di uno dei due polimorfismi del gene (C677T o A1298C), in particolare quando si ereditano da entrambi i genitori (in condizione di omozigosi), – ha aggiunto Cardarelli – può ridurre l’attività dell’enzima e provocare un aumento dei livelli di omocisteina del sangue e ciò può determinare un incremento del rischio di sviluppare patologie cardiovascolari. In questi soggetti, l’apporto di acido folico, che può essere integrato nella dieta anche aggiungendo verdure e frutta, può essere molto utile sia a scopo preventivo, sia in fase terapeutica”.
In quali casi è consigliato un test di nutrigenetica e a chi? “In generale – prosegue l’esperta – la conoscenza delle caratteristiche genetiche individuali, correttamente interpretate con l’aiuto di uno specialista del settore, può favorire la comprensione del proprio metabolismo e può fornire utili basi su cui formulare una corretta dieta personalizzata. Uno stile di vita alimentare corretto, adatto alle esigenze personali, può aiutare il nostro organismo ad avere un corretto metabolismo, favorendo le prestazioni fisiche e un miglior stato di salute”.
Di certo è fondamentale, il momento in cui si decide di ricorrere ad indagini approfondite, rivolgersi ad uno specialista del settore. “Nel valutare i risultati di un test di nutrigenetica, è importante comprendere, come abbiamo già sottolineato, che le varianti genetiche riscontrate non predicono la presenza di una malattia, ma possono essere di aiuto nell’evidenziare una eventuale predisposizione genetica che agisce di concerto con l’ambiente circostante e le altre caratteristiche genetiche del soggetto. Lo specialista del settore – ha precisato – può aiutare il paziente a correlare il significato dei polimorfismi analizzati con i test di nutrigenetica alle proprie necessità alimentari, alle caratteristiche cliniche e nella scelta degli alimenti da consigliare. Prende in considerazione eventuali esigenze individuali di nutrienti essenziali, parametri clinici e abitudini di vita in modo da comprendere correttamente le necessità del soggetto. Il metabolismo infatti è la conseguenza di una serie di funzioni biologiche sotto controllo multifattoriale – ha concluso – coinvolge migliaia di geni ed i loro prodotti, unitamente a fattori ambientali esterni quali lo stile di vita, l’alimentazione, l’attività fisica, i farmaci utilizzati, ecc. e solo una valutazione complessiva di essi raggiunge lo scopo di dare un’informazione completa al paziente”.